Profilo critico

GIUSEPPE ZANETTI SCULTORE VICENTINO

A cinquant’anni dalla morte di Giuseppe Zanetti (Vicenza 1891-1967) giova alla reputazione dell’arte vicentina oltre che al prestigio dell’artista riconsiderare nella giusta prospettiva l’opera di uno dei nostri più geniali e fecondi scultori, la cui opera non solo è frutto di spiccate attitudini personali coltivate con grande professionalità ma anche espressione di un magistero stilistico maturato a contatto con i movimenti artistici del suo tempo.

Va riconosciuto a Zanetti il merito di essersi liberato fin da subito da una figurazione ottocentesca ancora legata agli schemi di un frusto classicismo o superficialmente sfiorata dalle istanze rigeneratrici del realismo. Anche la sua formazione è diversa da quella dei coetanei, che, usciti dalla Scuola di Disegno e Plastica dell’Accademia Olimpica, trascorsero la vita intera tra le pareti di un laboratorio senza ricevere dall’esterno le sollecitazioni necessarie a mettere in moto il pensiero, a stimolare l’immaginazione. Bocciato nel corso 1910-1911 dell’Accademia Olimpica, frequenta con passione e profitto le lezioni di anatomia presso la facoltà di medicina all’Università di Padova, esperienza utilissima a un artista che privilegerà la rappresentazione del corpo umano.

Possiamo senz’altro affermare che Giuseppe Zanetti fu, tra gli scultori vicentini, colui che godette di maggiore prestigio fuori delle mura cittadine, l’unico dei maestri locali della cerchia di Ubaldo Oppi a possedere una personale cifra stilistica, a sviluppare una coerente linea espressiva. Il suo catalogo comprende un numero elevatissimo di opere, alcune purtroppo perdute o disperse. Non solo monumenti destinati alla pubblica ammirazione, ma anche sculture affidate al collezionismo privato, e molti gessi rimasti nello studio che consentono di capire i processi operativi.

La mostra di Ca’ Pesaro a Venezia del 1912, cui partecipa con i pittori vicentini Miro Gasparello e Ubaldo Oppi, fu un’occasione importante che gli consentì di confrontarsi con giovani artisti emergenti, destinati a segnare in prospettiva novecentesca un sistema di proprietà stilistiche diverse da quelle del passato: lo schiacciato, il linearismo, la deformazione espressionistica. Negli anni, che precedono la chiamata alle armi alla Grande Guerra – arruolato nel corpo degli alpini con il grado di ufficiale, si distinse nelle battaglie sull’Altipiano di Asiago e in Albania – si accosta alla declinazione di varie forme espressive, attratto particolarmente da quelle inaugurate da Gino Rossi, Arturo Martini, Umberto Moggioli e da quanti, accostatisi ai filoni della cultura del Simbolismo e delle Secessioni, privilegiarono nell’espressione plastica un linearismo scandito dall’espansione della forma nello spazio oltre i confini abituali. All’esposizione capesarina presenta un gesso raffigurante Cristo nell’orto, il quale, da quanto si desume da una foto d’archivio, rivela nelle mosse superfici flessioni che riportano al linguaggio duttile e fluido di Leonardo Bistolfi, un maestro guardato con particolare interesse da giovani impegnati come Zanetti a scrollarsi di dosso il peso della tradizione verista e ad accogliere il verbo simbolista che in Italia aveva trovato straordinari interpreti in Previati e Segantini. Opere come Maleficio (1912), Avarizia (1912), Angoscia d’anime (1918) sembrano riportare fin dal titolo al principio che ha animato tutta la cultura simbolista: lo stretto integrarsi della figura umana entro le forze indomabili della natura. Il dramma della condizione umana, prima ancora di quello della guerra, diviene lo specchio di tensioni diffuse della società, che a sua volta accetta di impregnarsi di emotività psicologica offrendo macroscopiche risonanze alle nostre ansie e ai nostri affanni. Sono gli anni in cui Ubaldo Oppi, dopo le recenti esperienze parigine, abbandona lo stile della grafia filamentosa, approdando ad un disegno asciutto e preciso per rappresentare un’umanità inquieta e sofferente. Sulla stessa linea si sarebbero mossi, dopo la guerra, Carlo Potente e Pier Angelo Stefani, i quali con Vladimiro Gasparello, prematuramente morto nel 1916 nel campo di concentramento di Stara Pazova in Serbia, formano il gruppo dei piccoli maestri vicentini che caratterizzarono in modo inconfondibile l’arte vicentina dei primi decenni del Novecento.

Maternità errante

L’Esposizione Cispadana del 1919 alla Gran Guardia di Verona dà l’opportunità a Zanetti, ritornato dalla guerra, di riprendere i contatti con il mondo artistico e di riallacciare i rapporti con gli artisti soldati, costretti come lui a un lungo periodo di inattività. A Verona con una nutrita schiera di artisti convenuti da ogni parte d’Italia ci sono anche i vicentini Ugo Pozza e Pier Angelo Stefani. Bisognava crearsi nuove prospettive di lavoro dopo che anche le vicende dell’arte erano profondamente cambiate. L’anno dopo, nel 1920, partecipa all’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, dove la sua Maternità errante (1924) vince il premio Opera Nazionale Combattenti. I temi sono più o meno gli stessi – vedi la Pietà esposta quell’anno stesso all’Esposizione Nazionale d’Arte di Vicenza -, ma il linguaggio subisce flessioni diverse che tendono a congelare i patetismi in una superiore dignità stilistica. A gran colpi di sintesi, Zanetti riscatta le tentazioni retoriche o intimistiche dei soggetti ricavando dalla materia inerte la luce del sentimento. La figurazione si fa più leggera e mentale, ravvivata da scioltezze ed eleganze. Insomma è Adolfo Wildt lo scultore italiano a cui Zanetti guarda con maggiore interesse per trovare risposte compatibili con la sua mentalità e prospettive di artista.

Pietà

Personalità colta e riflessiva, Zanetti riconosce in Wildt il maggior talento di scultore italiano ancora straordinariamente attivo nei primi decenni del Novecento. L’arte di Wildt è del tutto esente dal vitalismo sensuale. La sua scultura è “algida e levigata” nella freddezza del marmo. Nessun motivo di vibrazione e animazione corpuscolare viene ad intaccare il rigore della forma. Similmente le figure zanettiane restano chiuse in se stesse, avvolte in un’aura asettica ed isolata. Egli riesce tuttavia a captare quella ventata metafisica che si presterà ad essere utilizzata anche nell’ambito di un’arte ufficiale e di regime, ma senza tradire i principi ispiratori, senza portare alcuna colpa dell’impiego che ne viene fatto.

Monumento ai caduti di Montebello

Per cui anche la monumentalità delle opere ufficiali mi riferisco a capolavori come il Monumento ai caduti (1922-23) di Montebello e il Monumento ai caduti (1924) di Longare – finisce per essere un fatto mentale, ravvivato da scioltezze ed eleganze lineari, composto in un ben ordito tessuto formale.

Monumento ai caduti di Longare

 

 

 

 

La fine della guerra aveva stimolato l’azione delle glorie della scultura nazionale ad accaparrarsi commissioni di monumenti ai caduti, statue della vittoria e degli eroi martiri. Una statuaria celebrativa e monumentale, che oggi per noi riveste un particolare interesse per la storia del costume. Fu il momento del marmo di Carrara e del bronzo impiegati per ricordare nelle piazze d’Italia a perenne memoria il sacrificio di chi doveva tener vivo l’amore di patria. Nomi come Rambelli e Romanelli, Andreotti e Ruggeri in quel primo dopoguerra rappresentavano la continuità delle scuole regionali dell’arte italiana, ciascuna con i propri caratteri e limiti. Nel corso degli anni Venti la produzione degli scultori più vicini al clima del ritorno all’ordine sostenuto dal gruppo dei Valori Plastici e poi con accentuazioni più naturalistiche del movimento del Novecento Italiano si distingue per la comune ricerca di una forma classica. Le tendenze più innovative del momento urtarono contro le provincie culturali, ancorate ai pregiudizi accademici di un secolo prima, solo in parte sostituiti dal “vero” del naturalismo ottocentesco. Attraverso una modellazione scarna, di schietta derivazione dai modelli quattrocenteschi, Zanetti saprà imporre alla forma la misura della sua personalità, spoglia di ogni retorica.

  Il Cristo flagellato (particolare)

Come ogni artista che si rispetti, Zanetti può vantare una storia personale fatta di esperienze di lavoro e di elaborazioni concettuali. Dopo le prime prove che ne rivelano il talento, la sua vicenda creativa raggiunge le massime potenzialità nel periodo compreso tra gli anni Venti e Cinquanta. Per trent’anni è presente nei luoghi in cui l’arte è maggiormente coltivata e praticata, e gli artisti si confrontano tra loro. Sedi privilegiate sono le Biennali di Venezia, cui partecipa dal 1920 al 1936, e la Quadriennale di Roma, ma importanti anche altri appuntamenti regionali e nazionali. La sua attività si sviluppa in tre direzioni: monumenti ai caduti, ai martiri di guerra, ai cittadini benemeriti in luoghi pubblici; immagini e decorazioni sacre in edifici di culto; sculture per un collezionismo privato con figure della realtà, della storia, del mito.

Monumento Funebre al Co. Negri de Salvi

Ascendenze nordiche, mitteleuropee si evidenziano soprattutto nelle sculture degli anni Venti, costituendone l’aspetto più originale e innovativo. Dopo la bella prova della tomba del tenente Pietro Negri de Salvi (1921) nel Cimitero di Vicenza – il soldato disteso a terra, modellato con grande sensibilità, risente di un’iconografia ancora tradizionale -, realizza una serie di opere pubbliche che si impongono all’attenzione generale: i monumenti ai caduti di Montebello (1922-23), Longare (1924), Sandrigo (1926), la statua a Fabio Filzi (1925) di Arzignano. Alle Biennali veneziane presenta opere come Il Cristo flagellato (1920), Il cieco e l’orfano di guerra (1924), Ascensione d’anime (1928), che gli procurano ampi consensi. Se in queste si ammira la capacità di conferire vibrazioni tattili che le rende singolarmente attraenti, nei monumenti di Montebello e Longare si apprezza l’abilità di dispone le figure in un preciso disegno architettonico. Il decentramento delle immagini, scaglionate e ripartite in gruppi sparsi e espansi, porta le figure simboliche dislocate al limite della rottura ad uscire dalla traiettoria lineare senza rompere l’equilibrio della composizione. L’artista sviluppa la rappresentazione dimostrando di dominare lo spazio dell’azione e di avere una nozione di scultura come forma precisa e definita senza indulgenza per quei particolari decorativi di cui si compiaceva con inutile virtuosismo tanta scultura del tempo.

  Il cieco e l’orfano di guerra

« L’opera d’arte non è per gli occhi, è per l’anima » diceva Wildt. Anche per Zanetti scolpire significa “immettere lo spirito nella materia”. Questo non vuol dire trascurare il corpo, ma modellarlo attraverso la materia in modo da renderlo degno di accogliere lo spirito. Il marmo viene lavorato per essere una cosa viva e lucente, espressione insieme di una bellezza etica ed estetica I temi dell’eroismo e dell’amore, della vita e della morte non sono concepiti in opposizione tra loro, ma in una congiunzione che li vede l’uno richiamare l’altro. Ogni immagine di vita racchiude un’ombra di morte, ogni segno di morte racchiude un segno di vita.

 

 

 

 

 

 

San Giusto

 

Echi wildtiani affiorano nel San Giusto del Monumento ai Caduti di Vo’ Euganeo (1926), nella statua della Madonna Immacolata del sacello dell’Ossario del Pasubio (1926), in alcune sculture funerarie del Cimitero di Arzignano e di Vicenza e negli interventi per la risistemazione della zona presbiteriale del Santuario di Monte Berico, ove spiccano i ritratti in marmo candidissimo di donna Vincenza Pasini e di frate Antonio da Bitetto (1928-30). Il San Giovannino in bronzo, a grandezza naturale, presentato alla Biennale di Venezia del 1928, si rifà invece alla statuaria donatelliana meno eroica e trionfante, volta a liberare lo spirito dal peso della materia.

 

 

 

 

                                     Vincenza Pasini

 

 

Gli anni Trenta segnano il ritorno all’ordine un po’ per tutti. Nelle aree più provinciali la statuaria italiana si trascinava fra le solite contaminazioni classicistiche, il sentimentalismo, il verismo, il pittoricismo di tardi esiti impressionisti e, più che mai presente, la retorica celebrativa. Il Quattrocento è il termine finale di questo recupero, e i mezzi ne sono le forme ancora numerose dell’arcaismo, imparentate con gli esempi romanici. Zanetti sente, da un lato, il bisogno di rigore formale come espressione di chiarezza interiore, dall’altro, la necessità di aderirvi come espressione di sentimenti organizzati, rappresentativa del mondo nei suoi imperanti valori simbolici. Realizza numerose sculture private in cui mantiene vivo l’interesse per la resa fisionomica e psicologica dei soggetti, conservando la linearità dei profili, la spiritualità dell’immagine.

  Eva

La presenza alla Prima Quadriennale di Roma (1931) lo porta a scoprire nuove realtà, senza abbandonare i soggetti allegorici legati alla condizione umana (Eva, 1931; Mendicante che canta, 1931). Rimane colpito dalle opere di Libero Andreotti, uno scultore che aveva già avuto modo di apprezzare. Pur nello svolgersi fecondo dell’attività monumentale, Andreotti rientra nel clima novecentista in virtù del parallelo svilupparsi di soluzioni plastiche contraddistinte da un piglio decisamente più intimista, di fattura decisamente più sintetica e interiorizzata, ove la sinuosità dei profili non esclude cadenze più abbreviate. Il richiamo all’ordine significa in modo particolare per Zanetti conservare alla scultura una pratica professionale fatta di manualità e di rigore tecnico-pratico. Tra le opere presentate alle Biennali in quegli anni figurano Maternità (1930), Pubertà (1930), La mondana (1932), L’Arciere (1932), la Driade dormiente (1934), Diana (1934) per l’edizione del quarantennale, Primavera (1936), Suonatore di cembalo (1936).

Maternità

Il Monumento ad Antonio Fogazzaro a Vicenza (1932), la Fontana ai caduti a Noventa Vicentina (1935), la decorazione della Casa del Fascio a Valdagno (1937) sono interventi pubblici di straordinario impegno. Rivelano nella loro diversità l’eclettismo dell’autore, la capacità di aderire ad ogni richiesta senza perdere la propria identità. Prima di affidare a Zanetti l’incarico di realizzare il monumento a Fogazzaro, furono interpellati altri scultori dopo la morte dello scrittore avvenuta dieci anni prima. La scelta cadde su Edoardo Rubino, una celebrità del momento, ma il suo progetto troppo macchinoso e costoso finì per essere accantonato. L’immagine che Zanetti dà dell’illustre letterato è gioviale e dignitosa, non si discosta dall’iconografia ufficiale cara ai suoi agiografi. La Fontana di Noventa rispecchia un ardito disegno architettonico, e, pur modificata in corso d’opera, conserva intatta la spettacolarità scenografica nell’immensa piazza sullo sfondo di villa Barbarigo. Il gigantismo michelangiolesco delle figure allegoriche introduce qui un espressionismo manierista prima inedito.

 

 

 

 

 

 

La fontana di Noventa (particolare)

 

La Casa del Fascio di Valdagno è un riuscito esempio di integrazione tra architettura e scultura, così come, in quegli anni, avveniva tra architettura e pittura murale. I nomi di Arturo Martini e Mario Sironi sono richiamati a proposito per queste opere. I due altorilievi con la Marcia su Roma e le Conquiste imperiali devono il loro marcato realismo alla coralità di azione che punta sull’effetto narrativo. Opere del genere, che oggi vengono guardate con sospetto e perfino rimosse per appartenere ad un periodo infausto della nostra storia, sono invece una testimonianza della rinascita di quell’arte manuale e monumentale che, definita col termine “decorazione”, risulta essere tutt’altro che disprezzabile. Che i risultati non siano stati pari alle alte ambizioni era da attendersi, quello che scioccamente si nega è che molte opere di quel decennio si possano accettare come eccellenti. La grande decorazione legata all’architettura, che era stata il tramite dell’insegnamento religioso e civile, divenne il linguaggio testimone della storia, la memoria della nazione. Interventi Zanetti compie anche nel Sacrario Ossario del monte Laiten ad Asiago (1936). Sue sono 4 delle 8 Vittorie alate che ornano l’attico dell’arco trionfale e la Madonnina posta all’interno del Sacrario.

 

 

 

 

 

 

Cristo deposto nel sepolcro (particolare)

 

Gli anni Quaranta sono segnati da memorabili capolavori: i monumenti funebri del Cimitero monumentale di Vicenza e le sculture della chiesetta degli Alpini dei Castelli di Montecchio Maggiore. Nei primi ricompaiono gli stilemi wildtiani che connotarono la prima stagione dell’artista, nelle seconde riemerge la componente classica che è una costante del suo lavoro. Il Cimitero di Vicenza che da tempo accoglieva le tombe del tenente Pietro Negri de Salvi (1921) e delle sorelle Antonietta e Paola Giaconi Bonaguro (1933), diventa un pantheon di opere di Giuseppe Zanetti. L’artista vi compie una profonda meditazione sui mistero della vita e della morte attraverso la sua particolare sensibilità estetica. Le rappresentazioni simboliche, portando lo spirito della vita al di là dei confini dell’esistenza, recano una nuova miracolosa bellezza al tema della vita ultraterrena. Nel Cristo che sale al cielo della tomba Tretti Dal Pra (1940), nel Cristo deposto nel sepolcro (1941) della Tomba Trevisan Mantiero Pajusco, nel Cristo che risorge trionfante (1945) della Tomba Zanetti, simbolismo e classicismo si fondono in un binomio inscindibile, dando la misura delle qualità dell’artista e del suo estro inventivo. Svolge il tema dello spirito che supera la materia e sconfigge la materia stessa della vita. E dalla lotta tra l’uomo corporeo e l’uomo divino, tra l’essenza spirituale e il mezzo materiale dell’arte scaturisce l’espressione dolorosa della sua anima. La materia plastica, pur vivendo delle forme e nelle forme, tende a liberarsi da esse, fino a divenire spirito. Diversi sono invece la tomba di Clara Colombini (1940) con la giovane fanciulla che sale le scale del paradiso accolta da un angelo, e il monumento funebre di Eliseo Boschiero (1943), un rilievo alto 5 metri diviso in 4 fasce che raffigurano l’artigianato, l’industria, il commercio, l’agricoltura.

Monumento funebre di Eliseo Boschiero

La decorazione scultorea della chiesetta degli Alpini dei Castelli di Montecchio (1943-45) è l’altra singolare impresa all’interno del piccolo sacrario dedicato alla Madonna, eretto per assolvere al voto di un soldato ritornato dal fronte russo: la Madonna nel catino absidale; l’Annunciazione sull’ancona centrale; i due pannelli tripartiti con le Nozze di Maria, Santa Giulia, San Maurizio e la Natività di Gesù, San Francesco, Santa Chiara ai lati; Pio X e la Costruzione della chiesetta in controfacciata. La vena neoclassica trionfa in queste immagini, prive di ogni estenuazione o accentuazione espressionistica. Rifacendosi alle nitide forme della statuaria toscana del Quattrocento, l’artista interpreta il messaggio di pace e di concordia tra gli uomini sciogliendo le figure dai legami della terra attraverso i richiami del cielo. Reinventa con la stessa abilità l’iconografia dei vivi e dei morti mettendo a punto un’idea del corpo come espressione dell’anima.

La Natività di Gesù, San Francesco, Santa Chiara ai lati

Dei primi anni Cinquanta sono l’erma a Giangiorgio Trissino (1951) nel Giardino Salvi di Vicenza e il monumento al pilota Arturo Ferrarin (1951) nel Museo dell’Aria a Pratica di Mare. Dopo la Seconda Guerra Mondiale anche nella nostra provincia il clima culturale e artistico, oltre che politico e sociale, era cambiato. Movimenti come “Corrente” si erano affacciati in Italia facendo tra i giovani artisti nuovi proseliti. Si voleva che al di là degli schemi preordinati, l’uomo con i suoi sentimenti diventasse protagonista e padrone della storia. Si voleva che contro certe scelte e posizioni e contro una tradizione interpretata in termini accademici e naturalistici, si cercasse il contatto con la tradizione moderna dell’Europa, più che la continuità con una tradizione nostra italiana, gloriosissima, ma ridotta a modello in termini sterilmente formali. Giovanni Paganin e Gastone Pancera sono i giovani scultori vicentini che si affacciano alla ribalta interpretando queste istanze. Ma dovettero trasferirsi a Milano – come i pittori Dino Lanaro e Franco Meneguzzo -, dove la circolazione delle idee e lo scambio di esperienze consentivano di impegnarsi nella ricerca di una nuova espressività. Zanetti non può rinunciare ad essere se stesso, resta coerentemente figlio del suo tempo.

Più recenti sono i monumenti vicentini ai Caduti, mutilati, invalidi per infortuni sul lavoro (1957), già in piazza Gualdo, ad Antonio Pigafetta (1959) in Campo Marzo, a Cesare Battisti (1964) a Monte Berico. Sempre sensibile ai valori della patria e della convivenza, l’artista sconta talvolta la miopia di committenti incapaci di dare il giusto respiro ai suoi ariosi progetti.

Monumento a Cesare Battisti e ai Battaglioni alpini (le 8 aquile)

Tra gli artisti vicentini del secolo scorso Giuseppe Zanetti è il più eccellente tra i dimenticati.

Nessuno ha sentito il dovere, rivisitando i suoi monumenti, di far conoscere anche i marmi, i bronzi, i gessi, che magnificamente figurerebbero in una mostra che saldasse finalmente il debito che la città ha verso uno dei suoi più attivi e geniali artisti.

Gennaio 2017 – Giuliano Menato